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19 marzo 2011

L'occhio di ILLE sulla ricostruzione in Haiti

"Lettere da Haiti" - Francesco Amici 

Haiti, Port au Prince - 9 Dicembre 2010

Il prezzo di ogni indipendenza è forse la povertà, l'instabilità, l'incertezza....ma probabilmente anche nessuna di queste cose.
La Cambogia è stata francese, l'Indonesia è stata olandese come i suoi uffici di “immigrasi e implementasi”, l'Italia è “unita” dal 1848.

In Haiti si auto proclamò imperatore il nero Jean Jacques Dessalines che rese il paese indipendente dalla Francia nel 1804 governandola fino alla proclamazione della repubblica (1806) e alla riconquista spagnola della parte orientale dell’isola, la Repubblica Dominicana che invece si rese indipendente nel 1821, ma venne occupata dagli Haitiani per lungo tempo (1822-1844), fino a ottenere nuovamente l’autonomia con l’appoggio della Spagna (1844) e a cadere sempre più sotto l’influsso degli USA.

Conquistati e conquistatori e viceversa, destini diversi e la condivisione di una sola isola, lingue differenti, spagnolo da una parte e francese/creolo dall'altra, tante cose che tra loro sembrano poco assomigliarsi, Santo Domingo e Haiti.

L'aereo della Air France diretto a Miami è però atterrato nella capitale Port au Prince di Haiti, quasi due milioni di abitanti, recentemente diventata famosa agli occhi del mondo per il forte sisma di 7 gradi della scala Richter che ha colpito il paese il 12 gennaio 2010, lasciando dietro di sé oltre 200,000 vittime e circa un milione e trecentomila sfollati ed un numero non comunicato di gente non registrata, senza contare i danni alle abitazioni ed alle infrastrutture. Poi l'arrivo della stagione delle piogge nelle numerose tendopoli ancora presenti e l'insorgere del colera ha rialzato i riflettori sul paese, registrando ad oggi quasi 2,000 vittime e varie migliaia di casi. Il periodo delle elezioni presidenziali che si sta concludendo in questi giorni ribadisce ancora come la gente di ogni paese abbia bisogno di sentirsi protetta e tutelata dalle persone che sono incaricate a formare un governo.

Ad Haiti pare manchi la soddisfazione e la fiducia, gente in protesta lungo le strade di questi giorni, copertoni bruciati al vento, soldati dell'ONU incaricati, insieme alla polizia locale, di sedare le folle. Si parla di 8 morti negli scontri di ieri. E' triste pensare come un paese abituato a perdere il conto delle persone uccise dal terremoto (e chissà quante sono ancora sotto le macerie), a calcolare quelle colpite dal colera, debba anche aprire una “nuova cartella” per le vittime della violenza sulle strade.

La gente, il popolo, le famiglie delle tendopoli nella capitale e in altri villaggi, non hanno gradito che il genero del passato Presidente faccia parte dei due nomi dei candidati destinati alla corsa finale per la leadership del paese, mentre il terzo escluso per un solo 0,5% di voti, amato dalle folle e senza background politico (a volte un vantaggio a fronte di entusiasmo e trasparenza), sembra non fare più parte dei possibili eletti alla futura presidenza. E' questo che ha fatto arrabbiare le persone semplici. C'è bisogno di gente onesta, di gente di cui ci si possa fidare, c'è da ricostruire un paese non solo dalla macerie ma anche da tante altre cose, pare....e soprattutto c'è una grande quantità di denaro da dover ben gestire per il bene della popolazione.

L'aereo è atterrato alle 6 di pomeriggio, il sole era appena calato, spaesamento che ti avvolge, un nuovo paese, nuovi odori, una lingua, il francese, che poco conosco ma che ho cominciato a parlare, ma che discorsa velocemente diventa diversa, poi il creolo, lingua locale simile al francese. Prendo il bagaglio che mi riconsegna la carlinga del Boeing francese, una valigia nera da oltre 20 chilogrammi, dentro qualche vestito, sandali, un libro di Tiziano Terzani, una armonica e tutto quello che può servire per qualche mese ad una persona che dall'Italia arriva ai Caraibi. Poi il computer, il cellulare con la scheda italiana che per fortuna prende e riceve gli sms di qualche amico e della famiglia. Poche ore prima ero a Parigi, sulla terrazza del Centre Pompidou, primo progetto del nostro architetto ambasciatore Renzo Piano, in terra di Francia. Bevevo un calice di vino rosso insieme all'amico Cedric, compagno di viaggio molti anni fa in India e di lavoro in Cambogia. Aveva lo stesso sorriso e la calma di sempre, non erano passati oltre 5 anni dall'ultima volta che ci eravamo visti, ma semplicemente pochi istanti. Un brindisi traguardando la torre Eiffel che nel 1889 simboleggiava l'inizio dell'era industriale e poi la preparazione fisico/psicologica al cambio di realtà, da Parigi a Port au Prince, e quello che a primo avviso si può trovare in comune potrebbe essere la lettera “P” iniziale e magari qualche vocale.

Vengo avvolto, fuori dall'aeroporto, da una folla urlante di gente che vuole portarmi dentro un taxi. Non vedo l'insegna della organizzazione olandese che dovrebbe accogliermi. Sono tentato di chiamare la mia amica Chiara che qui lavora da molto prima del terremoto, ma mi trattengo e cerco ancora. Spiego ad un tassista che c'è già qualcuno che mi aspetta, non capisce niente perché glielo spiego nel mio francese, mi segue, poi in tedesco e in inglese gli dico qualcosa e funziona. Vedo un gruppo numeroso di volontari della Croce Rossa Italiana che trasportano fuori dall'aeroporto grandi contenitori per medicine, per assistere i malati di colera, seguo loro. Li avevo visti nell'aereo che da Parigi ci aveva portato a Guadaloupe e poi qua. Hanno grandissimi scatoloni e fanno fatica a trasportarli, ma non posso aiutarli perché al collo ho la mia valigia nera da 20 chilogrammi, la sacca del computer e un'altra valigetta con oggetti di prima necessità.

Camminando, sempre dentro il recinto dello spartano aeroporto di questa buia capitale, intravvedo un ragazzo di colore, poiché qui tutti sono di colore, con l'insegna dell'organizzazione olandese.

“C'est moi!!!” dico all'autista, senza sapere se sia corretto o no. Mi aiuta coi bagagli, salgo in macchina e insieme affrontiamo un'ora di scorciatoie per raggiungere l'ufficio e la guesthouse che mi attende. La città sembra New Dehli, Calcutta, Jakarta....la velocità e l' anarchia tipica delle urbanizzazioni asiatiche, dell'India o dell'Indonesia, anche se qui siamo a migliaia di chilometri di distanza. Penso alle rotonde che si stanno costruendo a L'Aquila, qui farebbero un gran successo con il rischio che qualcuno ci entri dentro e ne esca solo dopo la rinascita del paese. L'autista parla in inglese, la cosa mi conforta, mi consegna una busta con il benvenuto della organizzazione ed un cellulare carico di credito ma scarico di batteria. C'è anche una lettera del Security Manager che mi dice che saranno lieti di lavorare con me, pur non conoscendomi quasi affatto. In fondo, ci vuole fiducia, in tutte le cose, così come quella che la gente haitiana in questi giorni sta chiedendo per le strade della capitale di Port au Prince.

Francesco Amici 

30 Dicembre 2010 - Port au Prince, Santo Domingo e NYC

È strano come possano esistere al mondo posti diversi tra loro ed esistere nello stesso medesimo momento, Port au Prince e New York, Santo Domingo e L'Aquila.

A Santo Domingo mi è venuta spesso in mente proprio L'Aquila, perchè in ogni angolo della capitale della Repubblica Dominicana si affitta ogni cosa, una casa, un salone, una moto o una bicicletta e “si affitta” si dice “se alquila” nella lingua spagnola della parte dell'isola Hispaniola condivisa tra due realtà così poco uguali a prima vista tra loro, Haiti e la Repubblica Dominicana appunto. Il facile anagramma mi faceva pensare a L'Aquila, alle belle montagne che la circondano, al profumo del freddo, della neve, al tempo passato con tutti i colleghi e gli amici.

L'aereo della Delta Airlines che da Santo Domingo è atterrato sul manto innevato dell'aereporto JFK di New York aveva una limitata selezione di film, ma tra questi ho notato The American, un film recentemente girato e interpretato da George Clooney tra le montagne abruzzesi e precisamente nel paesino di Castelvecchio, dove oltretutto si era stati impegnati con la ILLE nella costruzione di una serie di unità abitative antisismiche per la popolazione colpita dal terremoto del 6 Aprile 2009. Quindi ho optato per l'opera cinematografica di George, avendo però sentito commenti sul fatto che il film non colpiva molto per la trama ma per le immagini, ed erano proprio quelle che mi interessavano. Infatti delle due o tre parole che George esprime durante i 120 minuti scarsi del film, poche rimangono impresse, anche perchè il rumore dei quattro motori dell'aereo della Delta copriva di gran lunga la capacità delle cuffie di fare arrivare i rari suoni emessi dal protagonista. Quello che mi è rimasto impresso è invece la bellezza delle montagne, dei paesini dei dintorni aquilani, quella pace che si trova difficilmente a Santo Domingo o nella Park Street di New York o nel quartiere Petionville di Port au Prince. Solo la, si trova, tra il Gran Sasso e tutto il suo intorno.

Facendo un passo indietro, il 20 dicembre siamo dovuti uscire da Haiti, perchè l'ufficio della organizzazione olandese chiudeva per una decina di giorni e per evitare problemi relativi alla sicurezza tutti gli stranieri sono stati invitati ad uscire scegliendo varie destinazioni, a seconda della disponibilità.

E' stato un periodo un po' particolare per arrivare ad Haiti, il periodo delle elezioni che oltretutto a inizio gennaio del nuovo anno dovrebbero riservare altre sorprese e l'uscita dal paese dopo sole due settimane. Posso dire di conoscere poco il paese ma di avere incontrato tantissimi haitiani nella repubblica dominicana e di avere lasciato momentaneamente sei cagnolini nella nostra casa a Port au Prince.

Sono circa un milione su dieci milioni di abitanti gli haitiani nella RD, rappresentando quindi il dieci per cento del totale. Il ragazzo dell'albergo a Santo Domingo era di Port au Prince e appena ha saputo che venivo da la mi ha fatto lo sconto sulla tariffa normale, che comunque fanno a tutti i collaboratori delle ONG presenti ad Haiti.

Siamo arrivati il 20 di dicembre da Port au Prince con un volo di una piccola compagnia locale, dodici persone, incluso il pilota, in un piccolo aereo che volava a volte sopra e a volte sotto le nuvole. Il volo è stato tranquillo e senza turbolenze anche se i voli con piccoli velivoli non sono la mia scelta preferita ma non c'erano altre alternative per uscire entro il 20. C'era anche Chris, un collega olandese che si è addormentato pochi minuti dopo il decollo. L'attesa all'aereporto della capitale Haitiana, per l'imbarco, è stata di oltre due ore, ma una volta dentro il piccolo aereo, si son chiuse le porte e in 2 minuti eravamo già in decollo, senza tanti complimenti. Il pilota si beveva la sua bottiglia d'acqua, ogni tanto sbadigliava, ma con tecnica e rapidità ci ha accompagnato in meno di un'ora dall'altra parte dell'isola. Arrivare a Santo Domingo è come sentirsi un po' a casa, la lingua spagnola per me è una cosa familiare, la capisco bene e la parlo abbastanza facilmente. La gente spesso pensa che sono uno spagnolo del Sud.

 Le due settimane ad Haiti sono passate tra ibernazione in casa per motivi di sicurezza dovuti alle elezioni e un po' di rare visite nei cantieri. Nelle prossime lettere racconterò con più precisione il lavoro ma l'intenzione del programma è quella di coinvolgere le comunità locali nel processo di costruzione e mantenimento delle loro abitazioni. Sono unità semplici dal punto di vista strutturale, ma trattandosi di numeri elevati è importante stabilire un percorso comune ed organizzato.

La mia impressione è che la gente “povera” che ho visto sia in realtà serena e forse abituata a vivere con poco. La tecnologia crea ovviamente bisogni diversi, comodità, necessità, e forse a volte, probabilmente, infelicità. Scrivere queste cose da New York, dal fascino e dalle sensazioni che regala questa città, e pensare alle piccole case fatiscenti dove vivevano bambini senza vestiti che correvano sorridenti, ribadisce quello che dicevo all'inizio ma conferma che anche i bambini a New York ridono. Ne ho visti parecchi oggi che scendevano con lo slittino dalle collinette del Central Park, a volte si ribaltavano col papà dietro, a volte riuscivano ad arrivare alla fine della discesa e il loro sorriso soddisfatto faceva capire che anche quella piccola impresa sarà una parte importante per la loro crescita. Dietro quella collinetta innevata si trovava la divergenza del Guggenheim, che con la sua eleganza architettonica dimostra la capacità di un architetto come Wright a inspirarsi all'organicità della natura per raccontare la sua visione formale e funzionale delle cose.

New York sembra di conoscerla già, anche se è la prima volta, anche se la conosco fisicamente solo da meno di 24 ore, anche se fra poco più di 48 ore la lascerò per tornare ad Haiti, ma è una città che ci ha accompagnato fin da bambini, coi film e tante cose, siamo cresciuti con il ponte di Brooklyn, le grandi strade di Manhattan, i grattacieli che visti ieri di notte dal taxi nella loro immensità di forme e numero, colpiscono e affascinano.

A proposito, il tassista era cinese, vive a New York da 15 anni ma riusciva solo a dire due parole in croce, anzi, in riga, 15 anni....fifteen years. L'unica cosa che è riuscito a dire è quella, parlava solo in cinese, fosse stato almeno indonesiano, avrei potuto comunicare con lui più facilmente. Probabilmente quando si è lontani dal proprio paese, mantenere la propria lingua e cultura aiuta a “non perdersi” ma non aiuta di certo il turista che deve farsi capire o che vuole spiegare dove deve andare. Comunque dopo circa due ore è riuscito a portarmi a destinazione, attraverso vedute notturne della Grande Mela e il traffico delle macchine gialle e lunghe, tra qualche auto europea sperduta e il bianco della neve che avvolge la città dalla Statua della Libertà per tutta la penisola.

Il Ground Zero è circondato da una rete di cantiere con pannelli che invitano a seguire con un sito web in internet il progresso dei lavori. Quel giorno di 9 anni fa ero a Praga col mio amico Eros, ricordo, e il giorno prima una signora piangeva in mezzo alla piazza principale con un rosario in mano e centinaia di persone che la fissavano in tondo, tra cui anche io e il mio amico in viaggio per l'Europa dell'Est. Mi aveva colpito la coincidenza delle cose, forse una associazione senza senso, ma niente è senza senso quando si cerca qualcosa.

Un augurio a tutti per un buon 2011.                                                                                        

Francesco Amici


19 Marzo 2011 - Port au Prince e Haiti, verso un nuovo governo?

Hotel Montana, appoggiato su un’altura su gran parte della capitale di Haiti, sopra il verde che da qua si nota in modo evidente, traguardando verso le spiagge, mentre il mare e’ di un blu intenso e le montagne intorno fanno capire che questo paese era veramente considerato la “perla dei Caraibi”.

Haiti nella lingua locale significa “localita’ in alto” e infatti le montagne stanno la, in alto, dove il traffico assordante di questa capitale di oltre 2 milioni di abitanti e’ sempre una storia difficile. In certe ore della giornata per fare dieci chilometri, si impiega oltre un’ora.

Oltre due milioni di abitanti, infatti, e molti sono arrivati a Port au Prince dopo il terremoto, in cerca di lavoro; in fondo i disastri spesso portano impiego, di ogni tipo, quello piu’ sentimentale delle emergenze e poi quello sempre un po’ piu’ complicato dello sviluppo dove spesso troppi pensieri differenti si confondono e creano, appunto, confusione.

Nell’ermergenza invece la strada da percorrere e’ spesso chiara a tutti.

E cosi’illustri nomi di questo paese tornano in questi giorni o sono ritornati da poco.

Ieri e’ atterrato con un aereo dal Sud Africa un certo Aristide, politico carismatico e presidente alla guida politica del paese qualche anno fa, poi esiliato due volte, l’ultima nel 2004 e tornato ieri alla pre-vigilia delle elezioni che ci saranno domani e che dovrebbero condurre alla definizione del nuovo Presidente; due candidati, un cantante haitiano residente negli USA e una signora elegante residente a Port au Prince.

Il cantante e’ favorito ma Aristide non vuole perdere il vagone di un treno talmente importante alla luce del recente terremoto e delle potenzialita’ che questo paese potrebbe avere. Cosi’ come non lo vuole perdere Jean Claude Duvalier, Presidente dal 1971 al 1986 e detto “Baby Doc”, figlio di “Papa Doc”, ex dittatore in Haiti qualche decennio fa. Un mese fa, in un ristorante di Petion Ville, la zona botique della capitale, verso le 9 di sera una serie di guardie del corpo, armate, sono entrate con “Baby Doc” in mezzo a loro. “He is back…..” e domani Haiti spera di andare veramente in alto, come il proprio nome dice.

I candidati presidenti erano presenti alla cerimonia del 13 gennaio 2011, ad un anno dal sisma, nell’area adiacente la cattedrale tagliata in due dalla forza del terremoto, senza piu’ copertura. Io, senza saperlo, mi stavo sedendo vicino alla candidata donna, e quindi non capivo perche’ quattro uomini, tre volte me e con l’auricolare, mi giravano intorno sospettosi. Poi il mio capo missione, il buon Piet, che ad Haiti ha gia’ lavorato oltre 20 anni fa, mi ha detto che sarebbe stato meglio scegliere un altro posto.

L’Hotel Montana e’ il posto dove si puo’ venire per rilassarsi veramente, una piscina e gli alberi, la birra fresca, il succo di frutta, le poltrone di vimini, gli sdrai col materassino, colleghi di altre organizzazioni che tra il sabato e la domenica vengono qui, si legge un libro, si parla, spesso non di lavoro, si ascolta musica. Dal Montana la citta’ sembra cosi’ verde tanto che e’ difficile pensare che Haiti sia il paese in percentuale piu’ deforestato del mondo, colonizzazioni del passato, mal governo, ma dall’aereo, venendo dalla Repubblia Dominicana, si “legge” nettamente la linea che divide i due paesi della penisola Hispaniola.

La speranza che almeno una parte del legno tagliato sia stato utilizzato per la costruzione delle ginger bread houses, esempi eccezionali di architettura in legno che nella downtown della citta’ ancora si vedono, ancora in piedi, ancora dignitosi nella loro architettura e portamento.

L’Hotel Montana custodisce un grande albero, di oltre 100 anni, probabilmente, e dietro l’albero, prima del terremoto, c’era il vero Hotel Montana, oltre cinque piani di un’architettura bianca, pulita, molto razionale, che ospitava operatori internazionali, staff dell’operazione militare di pace MINUSTAH e moltre altre persone. Verso le cinque del pomeriggio di oltre un anno fa, e’ venuto giu’ di colpo, “aiutato” da un dissesto geologico e dalle spinte sisimiche da varie direzioni. L’accelerazione ha fatto il resto.

Tre settimane fa ho incontrato un pilota delle Nazioni Unite(UN) che beveva un bicchiere di bianco al baretto che c’e’ oggi nel “Nuovo Hotel Montana”, c’erano anche due bei cani con lui, e mi raccontava che il giorno del terremoto aveva ricevuto cinque minuti dopo il sisma una chiamata al cellulare da parte di un suo amico, funzionario delle UN e Italiano, che chiedeva probabilmente aiuto da sotto le macerie dell’albergo. Non c’e’ la fatta e lui non ha mai potuto parlarci perche’ il telefono non era con lui al momento della chiamata.

Pare che i disastri si susseguano, Nuova Zelanda poche settimane fa, Giappone drammaticamente qualche giorno fa, non c’e’ soluzione di continuita’ tra essi, c’e’ quasi un senso di relazione che scorre ma ci sfugge. Kit Myamoto della Myamoto International, giapponese/americano che qui ad Haiti ha “riparato” oltre 3,000 abitazioni, e’ gia’ nella “sua terra”. Forse, che sia che a volte i disastri facciano ritornare le persone alla propria terra? Non credo questo sia il senso, ma Kit sta vedendo nel Sol Levante quello che si vede probabilmente dopo ogni disastro, la necessita’ dell’emergenza, dello stare uniti, del collaborare insieme, ecco…..forse, il senso!

Port au Prince sembra cosi’ verde dal Montana e quindi cosi’ diversa da quando la si percorre in auto perche’ il verde e’ sempre dentro le corti delle abitazioni, protette da alti muri di almeno 3 metri. Dalla strada non si nota, dalla’alto invece si.

 Pensando a L’Aquila, ammiro il fatto che la citta’ sia stata messa in sicurezza un po’ ovunque, e’ una cosa che qui a Port au Prince non si vede, ci sono palazzi di tre o quattro piani che verrebbero giu’ con un soffio di vento, un po’ piu’ forte, e invece resistono alla loro fragilita’, sono piu’ stabili della loro instabilita’ e spesso si vedono persone che ci camminano anche sopra o che al piano terra hanno aperto una attivita’. In inglese si direbbe “tu non vuoi andarci in quel negozio ….”.

Ma forse e’ un approccio in generale, diverso alla vita, che sempre separa chi sta troppo da una parte o troppo dall’altra. Ho visto solo un puntellamento in quasi quattro mesi, ed e’ quello che mettiamo nel cerchione del water nel nostro bagno quando ne abbiamo bisogno, un piccolo listello di legno, perche’ il cerchione non riesce a reggersi da solo.

Soprattutto nei villaggi, si notano spesso donne sedute tranquille sotto travi divelte e pronte a precipitare sopra le loro teste. Mancanza di informazione o grande fede, forse a volte, le due, vanno a passeggio insieme.

Nei villaggi ci andiamo spesso, i villaggi urbani sono dentro la citta’, vicino alla citta’, sono agglomerati di tende, casette in lamiera, alcune shelters che invece abbiamo gia’ costruito, anche se poche, perche’ il problema e’ soprattutto levare le macerie, capire dove portarle, intuire come riutilizzarle, coordinare col governo, che ancora non c’e’ o che c’e’ in piccola parte, per il certificato del terreno, che spesso non esiste. In poche parole, e’ difficile costruire in questa zona urbana, ma si fa il possibile. Poi si fanno grandi piani per coinvolgere le persone nell’aucostruzione e ci si accorge che a volte il budget non e’ sufficiente, che si sono spesi tantissimi soldi in altre cose e non ce ne sono piu’ per fare una benedetta water tower per dare alla gente un po’ di acqua. Di 100 USD che sono stati donati per Haiti, solo 1,6 USD vengono spesi nel paese. Io cerco di aumentare la percentuale iniettando una discreta dose di USD per questa notte al Montana, costa abbastanza, ma a volte i soldi sono spesi bene.

Se non fossi qua, sarei nella casa della organizzazione olandese a Vivy Michiel, a 10 km da qui, quindi a quasi un’ora, a fare altre cose e quindi non a scrivere questo breve diario per chi lo volesse leggere.

L’approccio della nostra organizzazione e’ molto comunitario, anche se a volte, credo, sia opportuno dare delle direzioni precise, non lasciare troppo spazio a troppi meetings o discussioni, ma cercare di fare bene e veloci quello che si sa fare.

La gente ha bisogno di shelters o case, perche’ fra qualche mese arrivano gli uragani, e allora si che l’acqua che in queste settimane la gente paga a suon di dollari per portarsi il camion a riempire la cisterna, quella si che arriva gratis dal cielo e non e’ benvenuta come quella del camion.

Il problema del terreno e’ un problema reale qui nella capitale, nella zona urbana, ma pare che lentamente le municipalita’ si stiano muovendo per considerare nuove aree, non come a L’Aquila, ma delle zone dove temporaneamente costruire abitazioni con servizi, da rimuovere nel giro di tre o quattro anni. Il concetto di servizi non e’ come da noi, che sia chiaro. Girando per il mondo si relativizza tutto e si dovrebbe imparare e vedere le cose con occhi diversi, anche se mi rendo conto che ci si lamenta quando non si accetta quello che si ha.

Sono quasi le dieci di sera e il Montana sta chiudendo il bar, meglio che mi affretti per avere l’ultima birra con gli amici e vedere il cielo stellato sopra il verde con ormai l’idea del mare sullo sfondo e sperare che la giornata di domani possa veramente dare ad Haiti una dimensione piu’ normale, piu’ serena, un passo fondamentale per cominciare a capire che bisogna rimuovere in fretta tutti quegli edifici ancora “vicini al collasso”, prima che cadano in testa a quella povera donna “ignara” che aveva aperto il negozio di fagioli proprio la sotto.

Buona serata dalla perla dei Caraibi

Francesco Amici
Port au Prince

(Collaboratore ILLE Case in legno)

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